La settimana lavorativa da 4 giorni: utopia o realtà?
di Redazione 12 Maggio 2022 •
di Redazione 12 Maggio 2022 •
Immagina un giovedì pomeriggio. Stai terminando la giornata lavorativa e sai che da lì a poche ore avrà inizio il tuo weekend. Venerdì, sabato, domenica. Tre giorni per ricaricare le pile e dedicarti alle tue passioni. Non solo: faccende domestiche, figli, genitori anziani, commissioni. Tre giorni per occuparti di tutte quelle attività e impegni per cui, di solito, non hai mai abbastanza tempo.
Insomma, quattro giorni di lavoro – invece che cinque – e tre di riposo. Il tutto, a parità di salario: bello, no?
Non si diventa creativi stando solo al computer. Noi lavoriamo quattro giorni, il venerdì serve per curare i propri interessi.
Carolina Sansoni, imprenditrice
Quello che fino a qualche anno fa sembrava inimmaginabile, sta lentamente prendendo forma e non solo si può sognare ma sta diventando qualcosa di concreto e realizzabile. Sono sempre di più i Paesi che scelgono di mettere in pratica la settimana lavorativa corta e i risultati sembrano tangibili, misurabili ma soprattutto positivi.
I capifila sono Scozia, Spagna, Giappone e per ultimo Belgio dove, addirittura, è entrata in vigore la legge che dà il “diritto alla disconnessione”, il diritto, cioè, di non rispondere al proprio capo in orari extra-lavorativi.
In Islanda, poi, l’esperimento è già concluso: su un campione di 2.500 lavoratori islandesi la produttività e i servizi erogati sono rimasti uguali o sono addirittura cresciuti nella maggior parte dei luoghi di lavoro.
Insomma, si sa che l’erba del vicino è sempre più verde ma quando iniziamo a innaffiare la nostra?
Lavorare meno, lavorare meglio: qualcuno c’era già arrivato
Quella della diminuzione delle ore di lavoro è un’intuizione antica: già nel 1930 l’economista inglese John Maynard Keynes sosteneva l’avvento di una rivoluzione per cui, grazie alla maggior produttività creata dallo sviluppo tecnologico, la settimana lavorativa si sarebbe ridotta a un totale di quindici ore.
I lavoratori di oggi – del futuro, secondo <span lang="en">Keynes </span>– sono la testimonianza vivente che non è andata proprio così. Insomma, Keynes ci aveva preso sullo sviluppo tecnologico ma non sull’aumento della produttività, e quindi ci ritroviamo a passare otto ore al giorno per cinque giorni davanti allo schermo del computer a chiederci quand’è che arriva il fine settimana.
Keynes non fu il solo: fu Ford a stabilire per primo la settimana lavorativa da 40 ore sostenendo che “tutti hanno bisogno di più di un giorno a settimana per riposare e rilassarsi”. Questa decisione portò a inaspettati benefici in termini di produttività – nonostante lo scetticismo comune – e in termini di soddisfazione dei dipendenti.
La strada imboccata è stata indubbiamente quella giusta: offrire ai lavoratori più tempo da dedicare al riposo, alla famiglia, al tempo libero per permettere loro di offrire il massimo di sé sul luogo di lavoro.
Il lavoro debilita l'uomo
Se la direzione intrapresa è stata corretta, perché oggi ci ritroviamo a fare i conti con il burnout a causa dei ritmi lavorativi frenetici? I lavoratori italiani sono tra quelli più stressati, specialmente quelli appartenenti alle nuove generazioni, e il fenomeno delle Grandi Dimissioni lo ha confermato: dall'inizio della pandemia il numero degli under 40 che ha deciso di licenziarsi è aumentato del 26%.
La tecnologia, poi, oggi ci rende perennemente disponibili: grazie a smartphone ed e-mail possiamo sempre essere raggiunti dal capo e dai colleghi anche in ambito extra lavorativo eliminando, di fatto, gli orari. In prospettiva questo può portare a un contesto dove il lavoro smette di nobilitare e inizia a svilire, a fiaccare, a causa di ritmi estenuanti che hanno un effetto di blurring sui confini tra vita lavorativa e vita privata.
Togliere un giorno ai canonici cinque di lavoro potrebbe rappresentare, quindi, la soluzione per risolvere il problema del burnout di cui si sente spesso parlare? O forse, la domanda giusta da porsi è un’altra: questa cosa funzionerebbe davvero in Italia?
Sono in molti a chiedersi che ne sarà dell’Italia, se sarà in grado di seguire le orme degli altri Paesi oppure no. La risposta, ovviamente, è ancora ignota e sicuramente dipenderà da tanti fattori, in primis politici ed economici.
Una cosa però è certa: la scala valoriale degli italiani sta cambiando. Se da una parte si può dire che i Baby Boomers - perlomeno fino a poco tempo fa - fossero totalmente dediti all’etica del lavoro, guidati dal mito della carriera come un faro nella notte, oggi forse il vento sta cambiando.
Per le nuove generazioni un buon work-life balance è fondamentale, la vita non deve limitarsi alla sfera professionale e il tempo diventa sempre più prezioso (forse dovremmo ringraziare la pandemia, per averci aperto gli occhi).
Insomma, le esigenze dei lavoratori stanno cambiando. La domanda, a questo punto, rimane una: il mondo del lavoro sarà in grado di soddisfarle?