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La settimana corta sembra essere un ingrediente fondamentale per la ricetta della felicità. Meno giorni di lavoro, stesso stipendio. Una situazione win-win in cui i lavoratori sono soddisfatti, più rilassati e le imprese non rinunciano a ricavo e produttività. Gli esperimenti si stanno diffondendo in molti Paesi… e in Italia?

Immagina un giovedì pomeriggio. Stai terminando la giornata lavorativa e sai che da lì a poche ore avrà inizio il tuo weekend. Venerdì, sabato, domenica. Tre giorni per ricaricare le pile e dedicarti alle tue passioni. Non solo: faccende domestiche, figli, genitori anziani, commissioni. Tre giorni per occuparti di tutte quelle attività e impegni per cui, di solito, non hai mai abbastanza tempo.

Insomma, quattro giorni di lavoro – invece che cinque – e tre di riposo. Il tutto, a parità di salario: bello, no?

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Non si diventa creativi stando solo al computer. Noi lavoriamo quattro giorni, il venerdì serve per curare i propri interessi.

Carolina Sansoni, imprenditrice

Quello che fino a qualche anno fa sembrava inimmaginabile, sta lentamente prendendo forma e non solo si può sognare ma sta diventando qualcosa di concreto e realizzabile. Sono sempre di più i Paesi che scelgono di mettere in pratica la settimana lavorativa corta e i risultati sembrano tangibili, misurabili ma soprattutto positivi.

I capifila sono Scozia, Spagna, Giappone e per ultimo Belgio dove, addirittura, è entrata in vigore la legge che dà il “diritto alla disconnessione”, il diritto, cioè, di non rispondere al proprio capo in orari extra-lavorativi.
In Islanda, poi, l’esperimento è già concluso: su un campione di 2.500 lavoratori islandesi la produttività e i servizi erogati sono rimasti uguali o sono addirittura cresciuti nella maggior parte dei luoghi di lavoro.

Insomma, si sa che l’erba del vicino è sempre più verde ma quando iniziamo a innaffiare la nostra?

Lavorare meno, lavorare meglio: qualcuno c’era già arrivato

Quella della diminuzione delle ore di lavoro è un’intuizione antica: già nel 1930 l’economista inglese John Maynard Keynes sosteneva l’avvento di una rivoluzione per cui, grazie alla maggior produttività creata dallo sviluppo tecnologico, la settimana lavorativa si sarebbe ridotta a un totale di quindici ore.  
I lavoratori di oggi – del futuro, secondo <span lang="en">Keynes </span>– sono la testimonianza vivente che non è andata proprio così. Insomma, Keynes ci aveva preso sullo sviluppo tecnologico ma non sull’aumento della produttività, e quindi ci ritroviamo a passare otto ore al giorno per cinque giorni davanti allo schermo del computer a chiederci quand’è che arriva il fine settimana.

Keynes non fu il solo: fu Ford a stabilire per primo la settimana lavorativa da 40 ore sostenendo che “tutti hanno bisogno di più di un giorno a settimana per riposare e rilassarsi”. Questa decisione portò a inaspettati benefici in termini di produttività – nonostante lo scetticismo comune – e in termini di soddisfazione dei dipendenti.

La strada imboccata è stata indubbiamente quella giusta: offrire ai lavoratori più tempo da dedicare al riposo, alla famiglia, al tempo libero per permettere loro di offrire il massimo di sé sul luogo di lavoro. 

settimana lavorativa 4 giorni

Il lavoro debilita l'uomo

Il lavoro debilita l’uomo

Se la direzione intrapresa è stata corretta, perché oggi ci ritroviamo a fare i conti con il burnout a causa dei ritmi lavorativi frenetici? I lavoratori italiani sono tra quelli più stressati, specialmente quelli appartenenti alle nuove generazioni, e il fenomeno delle Grandi Dimissioni lo ha confermato: dall'inizio della pandemia il numero degli under 40 che ha deciso di licenziarsi è aumentato del 26%.

La tecnologia, poi, oggi ci rende perennemente disponibili: grazie a smartphone ed e-mail possiamo sempre essere raggiunti dal capo e dai colleghi anche in ambito extra lavorativo eliminando, di fatto, gli orari. In prospettiva questo può portare a un contesto dove il lavoro smette di nobilitare e inizia a svilire, a fiaccare, a causa di ritmi estenuanti che hanno un effetto di blurring sui confini tra vita lavorativa e vita privata.

Togliere un giorno ai canonici cinque di lavoro potrebbe rappresentare, quindi, la soluzione per risolvere il problema del burnout di cui si sente spesso parlare? O forse, la domanda giusta da porsi è un’altra: questa cosa funzionerebbe davvero in Italia?

Questione di (ri)cambio generazionale?

Sono in molti a chiedersi che ne sarà dell’Italia, se sarà in grado di seguire le orme degli altri Paesi oppure no. La risposta, ovviamente, è ancora ignota e sicuramente dipenderà da tanti fattori, in primis politici ed economici.

Una cosa però è certa: la scala valoriale degli italiani sta cambiando. Se da una parte si può dire che i Baby Boomers - perlomeno fino a poco tempo fa - fossero totalmente dediti all’etica del lavoro, guidati dal mito della carriera come un faro nella notte, oggi forse il vento sta cambiando.

Per le nuove generazioni un buon work-life balance è fondamentale, la vita non deve limitarsi alla sfera professionale e il tempo diventa sempre più prezioso (forse dovremmo ringraziare la pandemia, per averci aperto gli occhi).

Insomma, le esigenze dei lavoratori stanno cambiando. La domanda, a questo punto, rimane una: il mondo del lavoro sarà in grado di soddisfarle? 

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