Possiamo trasformare le nostre community in una comunità, a patto di comprendere cosa sia una comunità e di ripensare radicalmente i propri desideri.
Molte acute riflessioni sulla tecnologia e sulla vita online sono riassumibili nel detto “Si stava meglio quando si stava peggio”. O, altrimenti, “Con meno connessioni eravamo più vicini, con meno conoscenza eravamo più sapienti”.
Pensatori raffinati e lucidi pongono quesiti fondamentali sui rischi di disumanizzazione e sugli effetti nefasti del digitale, dimenticandosi che è lì che sta avvenendo la graduale realizzazione di tutti i nostri desideri. Il problema, infatti, è a monte: internet è soltanto l’ultima versione del paradiso che l’umanità ha saputo immaginare e che, finalmente, ha cominciato ad abitare. Dovremmo cominciare dal domandarci, piuttosto: “Cosa abbiamo desiderato? Cos’altro possiamo desiderare?”
In altre parole, non abbiamo voluto le cose giuste, e ora ne paghiamo le conseguenze in termini di ansia sociale, erosione dei rapporti umani e isolamenti vari. Più che prendercela con la tecnologia, come strumento della realizzazione del desiderio, vale la pena provare a desiderare qualcosa di diverso. Anche perché, i problemi che affrontiamo oggi sono gli stessi che attanagliano l’umanità da millenni, con la differenza che ora, proprio grazie al digitale, siamo obbligati a farci i conti. Per farlo, per imparare a desiderare meglio, è utile comprendere cosa dell’antico concetto di comunità non abbiamo ancora capito e, quindi, trasferito al contemporaneo community. Anche in questo caso, il problema è a monte.
Passiamo la vita a proteggerci dall’urto del mondo, ma così facendo sfuggiamo a qualunque possibilità di scoperta. La vera comunità non è rassicurante, non è affatto una comfort zone: è piuttosto un luogo in cui ci si mette insieme in pericolo allo scopo di conoscere e conoscersi davvero.
Maura Gancitano e Andrea Colamedici, Tlon
Compagnia e comunità
Siamo soliti pensare alla comunità come a qualcosa di semplice, perfetto, auspicabile per tutti e in qualunque condizione, e alla community come una sua degradazione, una versione di serie b che tiene insieme persone slegate tra loro, unite da passioni estemporanee e relazioni deboli.
Pensiamo alla comunità come a quel luogo in cui qualcosa viene messo in comune e finiamo col confonderla con il concetto di compagnia, che viene da cum-panis ed è, quello sì, il luogo in cui si condivide il pane, cioè il cibo, la tavola e, più estesamente, la vita. Compagno e compagna di vita è chi condivide con noi le piccole cose essenziali. Ma non basta essere in compagnia per creare una comunità.
L’etimologia di comunità, dal latino communitas, cum-munus - dove “munus” significa tanto obbligo quanto dono - riguarda un aspetto paradossale, che è utile analizzare per capire come riempire di senso le nostre community. Il munus della comunità non è un pezzo di pane, e neanche uno spazio fisico condiviso. Scrive Roberto Esposito in Communitas: «Il munus che la communitas condivide non è una proprietà o una appartenenza. Non è un avere, ma, al contrario, un debito, un pegno, un dono-da-dare. E dunque ciò che determinerà, che sta per divenire, che virtualmente già è, una mancanza».
I membri della comunità sono legati tra loro perché hanno scelto, a monte, di trasformarsi, di non rinchiudersi in sé stessi. E questo ci spaventa moltissimo oggi, perché siamo ossessionati dal restare ciò che siamo, dal difendere a tutti i costi la nostra fragile identità e dal non provare dolore. Passiamo la vita a proteggerci dall’urto del mondo, ma così facendo sfuggiamo a qualunque possibilità di scoperta. La vera comunità non è rassicurante, non è affatto una comfort zone: è piuttosto un luogo in cui ci si mette insieme in pericolo allo scopo di conoscere e conoscersi davvero. È lo spazio in cui si condivide il proprio non sapere, l’inachèvement, quell’incompiutezza definitiva «che consiste nel tenere aperta l’apertura che già siamo. A non occultare, ma ad esibire, la ferita nella e della nostra esistenza», spiega ancora Esposito citando Bataille.
La comunità non è un autosalone in cui brillano gli ultimi modelli di automobili, ma una carrozzeria dove vive insieme chi è consapevole di portare una ferita per il fatto stesso di essere venuto al mondo. Solo con questa comprensione nel cuore si può ripensare il ruolo delle communitydigitali, sfrondandole dalle finte necessità: non c’è davvero bisogno di condividere uno spazio fisico per far sì che la communityesprima lo stesso potenziale della comunità. Ma non basta avere una passione in comune. Affinché una community possa essere anche una comunità - e nulla lo esclude - dipenderà soltanto dalla disposizione dei singoli individui a non lasciarsi unire solo da ciò si ama - un cantante, un hobby, una battaglia civile - ma nell’usare quel collante per andare oltre, usando la tecnologia per scoprire e inventare insieme nuovi desideri.
Maura Gancitano e Andrea Colamedici
Tlon