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Aiutano a comunicare, rafforzare i messaggi ed empatizzare. Ma sono terreno di scontro tra generazioni…

Ricordati di santificare le Emoji. Il 17 luglio cade infatti il World Emoji Day 2022, la giornata mondiale che celebra le famose icone che utilizziamo nei messaggi digitali, siano essi destinati a parenti, amici o colleghi.

Sgombriamo subito il campo dal grande dubbio di fondo: emoticon ed emoji sono la stessa cosa? No, anche se alcuni emoji di fatto sono emoticon per immagini. Come spiegato da autorevoli fonti, e semplificando il più possibile, l’emoticon è la rappresentazione tipografica di un’espressione emozionale utilizzabile in un contesto testuale. Le emoji invece sono icone, simboli, immagini e possono rappresentare molte cose, dai fantasmi alle melanzane (eh già…).

Ma torniamo alle emoji, nel giorno della loro festa.

Potentissimi mezzi di comunicazione, ma non prive di qualche effetto collaterale, le emoji appartengono al nostro panorama culturale, linguistico, artistico. Sono quindi una cosa seria e come tale vanno trattate. Ma quale è il merito di questi simboli che non conoscono crisi e annoverano continue new entry? Molti pensano, di base, che le emoji permettano di risparmiare tempo e siano molto più efficaci delle parole. In effetti, cosa funziona di più di bel clap clap figurato, inviato più volte per esprimere consenso ad amici e superiori?

La comunicazione online diventa più fisica

Tuttavia, come argomenta la internet linguist - e co-creator del podcast Lingthusiasm - Gretchen McCulloch, il motivo per cui le emoji sono diventate così essenziali è, manco a dirlo, molto più complesso. Partiamo dal fatto, spiega la studiosa, che la scrittura è una forma di tecnologia che rimuove il corpo dal linguaggio. Certo, possiamo usare la punteggiatura: i punti esclamativi ripetuti, in effetti, sembrano nati per esprimere stizza; una lunga serie di puntini ci consente di restituire un senso di indefinito o di ambiguo, in alcuni casi di sorpresa. Ma non è la stessa cosa rispetto ai gesti o al body language che risulta, in alcuni casi, più incisivo delle parole.

Le emoji, secondo McCulloch , si inseriscono quindi in quel vuoto tecnico che non ci consentiva di essere abbastanza fisici nel linguaggio scritto. Tuttavia, cercare una teoria unificante ha poco senso: le emoji coprono infatti svariate funzioni, non solo quella comunicativa. In alcuni casi utilizziamo le utilizziamo come emblemi, ed ecco entrare in gioco differenze culturali importanti nella decodificazione, proprio come nel mondo analogico. In altri casi, sono un elemento di co-speech, un correlato gestuale che rafforza pensieri: ecco quindi una sequenza di tre emoji uguali per dire “ben fatto” o “ma chi se ne importa”.

Anche le emoji sono parte di quel grande cambiamento di cui McCulloch parla nel suo libro "Because Internet: Understanding the New Rules of Language", che spiega perché, se il linguaggio è “il progetto open source più spettacolare dell’umanità”, Internet è la forza che fa cambiare la lingua più velocemente e nelle modalità più avvincenti. Il riferimento, nel suo caso, va all’inglese ma l’idea vale in generale: l’aumento delle conversazioni scritte su social e piattaforme linguistiche modifica il linguaggio, che diventa forse meno autorevole ma più informale, fluido, negoziabile.

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Le emoji non ci stanno privando della nostra lingua scritta ma piuttosto la accentuano fornendo un tono che spesso le parole non hanno a loro volta. Sono, in un certo senso, la forma più evoluta di punteggiatura che abbiamo a nostra disposizione.

Emmy J. Favilla, autrice e scrittrice.

Terra di confronto tra nuove e vecchie generazioni

Tuttavia, anche la scrittura di emoji non può sottrarsi alla madre di tutte le tensioni: il contrasto generazionale. No, i Boomer non c’entrano. A quanto pare, la frattura si consuma tra i Millennial e la Gen Z, l’idolatrata generazione nata tra fine anni ’90 e i primi anni ’10 del ventunesimo secolo.

cosa sono le emoji

Alcune emoji, infatti, non sembrano essere abbastanza cool per essere usate dai rappresentanti della Gen Z, come spiegava BuzzFeed analizzando il fenomeno su TikTok: è il caso dell’emoji che ride fino alle lacrime, snobbata in quanto usata, o abusata, dai più anzianotti millennial (ma anche da tutti gli altri). No, anche alla versione ridens inclinata, che aggiunge altra enfasi al tutto. A quanto pare, l’emoji del teschio funziona meglio per esprimere le risate e in effetti, a pensarci bene, corrisponde all’espressione viralissima “io morta”. Assegnare un significato più distintivo e connotato alle emoji sembra essere un’altra prerogativa della Gen Z che ad esempio utilizza l’emoji con il cappello da cowboy per indicare una sensazione di cringe. Perfino la faccina sorridente sembra aver perso il suo appeal originario, indicando un imbarazzo nemmeno troppo latente.

Se le differenze generazionali fanno parte della vita, meglio provare a capire cosa vuole dire la Gen Z con gli emoji. Su TikTok, c’è una trentenne che ha pensato di cimentarsi in un tutorial per spiegare che, ad esempio, ricevere da un Gen Z il canonico “pollice su”, non è segno di approvazione, semmai un insulto, simbolo di un atteggiamento passivo/aggressivo.

Ma non tutti i contrasti vengono per nuocere. Forse il confronto con un altro approccio alle emoji farà bene anche ai Millennial e spingerà a ripensare qualche dinamica un po’ statica e abitudinaria. L’importante è continuare a comunicare e soprattutto creare empatia.

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